sabato 27 giugno 2009

Università e famiglia

http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/06/26/formazione-2/
http://caderno.josesaramago.org/2009/06/26/formacao-2/

Agli occhi del comune cittadino medio è forse inesplicabile, quasi incomprensibile, la relazione tra università e democrazia. E' opinione piuttosto diffusa che non c'entrino nulla: l'università servirebbe solo a studiare e a preparare al mondo del lavoro, mentre la democrazia sarebbe il miglior sistema sociale possibile per vivere insieme. Due cose completamente separate: la democrazia la fanno i politici, non le università; al massimo nelle università possono infilarsi alcuni poteri politici, mai il viceversa.

Immaginando un mondo ideale, non è difficile associare sapienza e governo: già Platone metteva i filosofi, i sapienti, a governare la sua Repubblica ideale. D'altro canto Platone sembra roba vecchia in un'epoca in cui le università producono soprattutto programmatori e ingegneri: con tutto il rispetto per queste due (potenzialmente meravigliose) professioni, una quantità impressionante di altre importantissime figure culturali, umane e professionali è stata sminuita fino alla minima considerazione, all'accusa di improduttività e al sospetto di inutilità. Se un uomo non produce ricchezza, tecnologia e benessere immediati viene tagliato fuori con la rapidità impressionante delle formiche e delle api che uccidono un intruso. A cosa non crediamo più? Ad esempio al fatto che un filosofo, uno storico, un logico, possono davvero contribuire a un dibattito sugli ogm, sulle cellule staminali, sulla situazione finanziaria internazionale, sulle crisi politiche del presente e le guerre del futuro.

Da centinaia di anni l'università non serve solo a studiare per imparare qualcosa da usare in futuro, a prendere un diploma: nell'interezza del confronto umano (humani nihil a me alienum puto, scriveva Terenzio), l'università ideale dovrebbe essere sempre presente come un meccanismo regolatore cibernetico (nel senso che il termine aveva prima di Watt).
Non come la lancetta dell'orologio, ma come il bilancere, l'università dovrebbe guardarsi dal proporre un'opinione, e concentrarsi a stimolare e ampliare come un prisma tutti gli interventi, senza trascurare nessuna delle voci, delle variabili e dei problemi in gioco: se non altro perché non sappiamo quale variabile apparentemente trascurabile di oggi potrebbe diventare fondamentale domani, e perché oggi abbiamo molteplici strumenti per poterlo fare.

Perché l'università si è contratta fino a perdere l'ambizione del proprio ruolo, o quantomeno l'immagine di questo ideale agli occhi del cittadino medio? Da organizzazione innovatrice è diventata sinonimo di conservatorismo? Il mondo si è trasformato intorno a lei, mentre si guardava le ciglia allo specchio? Oppure il mondo economico, politico, tecnologico, mediatico, sociale e geografico le è cresciuto intorno, mentre lei è rimasta piccola e indifesa prima di accorgersene? Le spiegazioni possibili sono tante, alcune più prosaiche di altre: ad esempio, ora più che mai le università vivono di fondi, denaro proveniente (o non proveniente) dallo stato e da grandi aziende private: di fatto, il potere di controllare, finanziare, esaltare, sminuire, affamare o deprecare alcuni progetti, materie, dipartimenti e atenei piuttosto che altri è concentrato in poche mani e poche firme, col rischio implicito di seguire - in buona o cattiva fede - il solo profitto immediato perdendo di vista il benessere sociale a lungo termine.

Ecco uno dei punti in cui le strade di università e democrazia si congiungono e intersecano: avviene molto più di quanto pensi il nostro cittadino medio, che se ne accorge soltanto quando vede sorgere accanto a casa propria una nuova centrale nucleare, compra cibo transgenico senza etichetta oppure trova il deserto mentale in prima serata su tutti i tasti del telecomando.

La famiglia vive una profonda crisi ed è impotente di fronte alle trasformazioni del nostro tempo? Personalmente su questo sono ottimista. Forse adesso nel mondo occidentale è davvero così, ma non sarà così per sempre, se gli spazi mentali e culturali intergenerazionali si assottigliano e dilatano ciclicamente nel tempo. Negli ultimi 10 anni, le generazioni più giovani sono nate già immerse nella comunicazione globale: alcuni dei loro padri non hanno mai neanche acceso un computer. Le idee, i valori, i sogni e gli incubi sono diversi, ma la siturazione è destinata a cambiare con una naturalezza che si profila auspicabilmente priva di scosse.
In Italia il discorso è persino diverso (chi se ne stupisce più?): da noi la crisi della famiglia assume caratteri differenti rispetto agli altri paesi, ma per quel che riguarda il futuro e le generazioni che verranno, il nostro mammismo non conosce crisi, mentre avremmo un disperato bisogno di bambini senza briglie.

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