venerdì 18 giugno 2010

18 giugno 2010

Arrivederci, José.

venerdì 25 settembre 2009

Visione di Barack Obama

Jogo Sujo - Gioco Sporco

Emulando come posso un moderno san Giovanni di fronte alla Rivelazione dell'Apocalisse, guardo in tv Barack Obama e lo ridisegno nella mente in un'immagine allegorica e un po' grottesca: nella visione, onirica e assurda, il presidente se ne va in giro con una scritta sulla fronte e un cartello in ogni mano: la scritta in fronte dice "cambierò il mondo", i cartelli dicono "sono qui: sparatemi!" e (l'altro) "trovate un motivo per criticarmi, se ci riuscite". A essere precisi, nel mio delirio di tele-visionario le scritte sono in inglese; sulla fronte c'è "I'll change this world" e i cartelli sono più divertenti e prosaicamente statunitensi: dicono "shoot me!" e "fuck me if you can".

Quest'ultima scritta se la porta dietro anche per "l'informazione" (quella tra virgolette) e gli europei e americani che ciclicamente lo accusano di populismo, incoerenza, e scavano alla ricerca di qualcosa di torbido e sporco (una notizia, una voce, un sospetto) che butti giù il suo sipario di americanissimi ideali costruito durante una campagna elettorale lunga e agguerrita: Obama è musulmano! Obama ha detto che i poliziotti sono razzisti! Obama piscia in piedi! Cose così.

Questo presidente è palesemente incline a fare discorsi di cambiamento e speranza, a trascinare le folle in bagni orgiastici affollati di parole come can, future, change, yes e you. Ciò che soprende è che ai discorsi convinti, emozionanti, avvolgenti, fa anche seguire la messa in cantiere di progetti piuttosto arditi, radicali, belli (per qualcuno pericolosi). E' un equilibrista che da' spettacolo per un pubblico interessato, che spesso lo fischia e sotto la fune mette filo spinato e vetri rotti, casomai si riuscisse a farlo cadere.

Non stupisce che trovi ostruzionismo da ogni lato, dalle lobby filoisraeliane alle multinazionali della finanza, dalle società assicurative ai conservatori del "libero liberismo".

Li deve affrontare o schivare tutti: me lo immagino in poltrona - la sera - quando magari vorrebbe nutrire lo spirito guardandosi Zoolander in dvd con un paio di birre, ma telefonate e inservienti che vanno e vengono continuano a rompergli le scatole e a frapporre domande banali tra lui e il genio di Ben Stiller. Come sintesi e climax della situazione, arriva un bigliettino di congratulazioni per qualcosa, un invito per il 7 ottobre a un cocktail a casa di Michael Bloomberg (che è filoisraeliano, ha una multinazionale della finanza, è superliberale ed è pure sindaco di New York): brividi di inquietudine, sospetto che potrebbe essere un vortice di discorsi imbarazzanti e trappole da 30 denari, e la serata di oggi è rovinata pensando a quel futuro, stanco mercoledì.

Quindi dobbiamo aiutarlo e sostenerlo, povero Obama: per l'Europa sarebbe ora di uscire dalle vecchie logiche guardinghe del "va dove ti porta il vento" e del "vediamo chi vince e scopriremo chi ha ragione": è ora di uscire dal torpore di chi sostiene gli Usa per debito, per opportunità e per interesse, e di dare una mano al presidente in modo deciso, palese ed entusiasta (visto che per una volta ci sono dei motivi per farlo) e farlo prima che un caffé al cianuro interrompa questa visione positiva del futuro.

venerdì 21 agosto 2009

Scontro di civiltà

http://cuaderno.josesaramago.org/2009/08/21/un-tercer-dios/

Dio e Allah non si scontrano: coincidono, come coincidono con Elohim, Yahweh, Adonai, HaShem, Yehowah, Brahman... Di ogni nome diamo un'interpretazione che è il segno del nostro limite, di ogni nome sottolineiamo alcuni aspetti ignorandone altri, o sorvolando su di essi come la nostra debole natura ci suggerisce, tenta o impone di fare.

Lo scontro tra civiltà è inevitabile nel momento in cui si è più attenti a cercare le differenze nella propria visione e nei propri interessi rispetto alla possibilità di trovare le pur evidenti somiglianze, i punti di contatto, il terreno comune che potrebbe essere la base per il confronto e il dialogo interreligioso e interculturale: sicuramente questo terreno sarebbe un'ottima base per identificare i confini e l'idea stessa dell'etica umana, con le sue implicazioni.

Lo scontro delle civiltà non nasce dalla religione in se' stessa: piuttosto, la religione viene strumentalizzata per impiegare con fini diversi grandi masse che si lasciano manipolare acriticamente, dimenticando quello che la Bibbia, il Corano e il Tanàkh dicono a proposito del rispetto degli altri e della vita.

In ogni caso, come sottolinea lo stesso Huntington nel suo libro, lo scontro tra civiltà non si limita ad uno scontro religioso: implica innanzitutto il riconoscimento che la cosiddetta democrazia liberale occidentale non è l'unico sistema di valori possibile, e impone con urgenza lo sviluppo di alternative e strumenti di convivenza anche con chi opera in un ambiente economico e socioculturale diverso dal nostro, prima fra tutti (di recente l'ho scritto più volte) la Cina, che con le sue ambizioni e il suo ateismo dimostrerà presto che non serve una religione per partecipare alla battaglia da protagonisti insanguinati.

Huntington non ha scoperto un fenomeno nuovo: lo scontro tra civiltà esiste da prima di Cesare, da prima di Alessandro, da prima di Wu Ding, da prima di Narmer. Il problema è che oggi le nostre armi non sono più i cavalli del Fergana, il carro, la formazione a testuggine, e la responsabilità di ridisegnare un nuovo ordine mondiale di pace è ancora maggiore: Huntington scrive che "L'Occidente non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione ma attraverso la sua superiorità nell'uso della violenza organizzata (il potere militare). Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai."

E' più che mai il momento di ricordarlo e porre rimedio a livello sociale, religioso e politico: in questa direzione, un esempio che ho già citato più volte è la Fondazione Weltethos.

giovedì 20 agosto 2009

Melancolia I

http://cuaderno.josesaramago.org/2009/08/20/789/

Se pensando a Eduardo Lourenço può venire in mente la Melancolia I di Albrecht Dürer in modo irresistibile e automatico, in modo automatico e irresistibile vedendo la Melancolia - senza aspettarmi di incontrarla - mi sono venute in mente tante altre cose, tutte insieme, come un tuffo proustiano nel passato: Juvarra, Bulgakov, Merlot e Cabernet, Tè del Darjeeling, la Compagnia di Gesù, dizionari di cinese, talismani taoisti, l'odore dei canali e della nebbia sulle fondamenta.

Dieci anni fa, guardavo molto spesso quest'incisione meravigliosa: in un appartamento del ghetto di Venezia ne parlavo per ore con Elisabetta, come se lei - storica dell'arte - potesse svelarmi il senso non delle figure e dei tanti simboli, ma dello sguardo furiosamente e struggentemente intento. Devo renderle atto di averci provato con ogni mezzo, per quanto trovi che gli occhi della Melancolia siano un mistero di inspiegabilità, imperscrutabilità e potenza che non hanno nulla da invidiare alla tanto blasonata (bella ma non così misteriosa) Monna Lisa di Leonardo.

Davvero questa piccola grande opera può suscitare la melancolia il cui titolo promette di ritrarre. Mi provoca quasi un timore revenziale di provocarla, come un grande Angelo Nero e fosco, personaggio terribile e minaccioso, miniangelo spazzacamino.

mercoledì 19 agosto 2009

Sangue in Cina

http://cuaderno.josesaramago.org/2009/08/19/la-sangre-en-chiapas/

Girasole al sole

L'hai visto
quel girasole al sole?
Guardalo, non abbassa la testa
ma la gira
la torce all'indietro
come per spezzare con un morso
quel laccio attorno al collo

L'hai visto
quel girasole che tiene alta la testa
con sguardo indignato al sole?
Con la testa quasi lo eclissa
e anche quando il sole non c'e'
continua a brillare

Hai visto quel girasole?
Devi avvicinarti
e scopri
che la terra sotto i suoi piedi
quando ne stringi un pugno
schizza sangue

(Mang Ke, 1983)

lunedì 17 agosto 2009

Socrate e la Royal Dutch Shell

http://cuaderno.josesaramago.org/2009/08/17/acteal/

Solo pochi giorni fa scrivevo di ritenere una fortuna che Galileo abbia abiurato, perché un giuramento imposto non ha valore né dignità di fronte ad alcun tribunale umano o divino. In ogni caso una sua condanna a morte non sarebbe stata comparabile a quella di un Socrate, che 399 anni prima di Cristo rifiuta di fuggire dalla propria cella e per coerenza decide di accettare la cicuta. In entrambi i casi c'è un processo ingiusto, ma nel caso di Galileo l'abiura è estorta, e la convinzione dello scienziato resta inattaccabile. Nel caso di Socrate invece l'atteggiamento verso il processo è di compassata noncuranza, e la propria morte diventa un gesto di coerenza, di dissenso, di volontaria alienazione dagli schemi triviali e miserabili della politica ateniese, perché insegnare il bene e il male ai giovani è più importante e più giusto di vivere. Nietzsche nel Crepuscolo degli Idoli scrive che fu Socrate stesso a voler essere condannato a morte, che fu lui stesso che si diede la cicuta, quasi costringendo gli ateniesi a farlo morire. Io credo piuttosto che corse questo rischio con la serenità e la disinvoltura chi vede la propria morte in una chiave leggera, quasi priva di importanza, di fronte alla prospettiva ben più grave di vivere al centro di un'ingiustizia: succede spesso agli asceti, ai filosofi e ai soldati più eroici e non a caso Socrate incarnava da solo tutte e tre queste figure.
Sembrano eventi remoti, privi di relazione con il nostro tempo e la nostra vita, ma non lo sono affatto: mi viene in mente Ken Saro-Wiwa, lo scrittore nigeriano, il famoso attivista. Il 10 novembre 1995 il regime militare nigeriano (che non era considerato "terrorista" in quanto ancora alleato degli Usa) ha organizzato un processo farsa e fatto impiccare questo martire del nostro tempo: pur nell'indignazione internazionale, il processo si è fatto, la botola si è aperta, la corda si è tesa. Appena poco prima Saro-Wiwa aveva detto le sue ultime parole: Lord, take my soul, but the struggle continues. Difendere il proprio popolo (gli Ogoni) dall'inquinamento e dai soprusi delle multinazionali del petrolio è stata considerata una colpa tanto grande quanto i profitti che andava a intaccare, ma la sua morte ha provocato l'espulsione della Nigeria dal Commonwealth of Nations; nel 1999 il regime militare nigeriano sarebbe caduto, mentre il paese scivolava lentissimamente verso un regime democratico.
Che la Shell avesse ogni interesse a spingere il regime militare a uccidere Saro-Wiwa è ormai assodato, ma ancor più vergognoso è che tre mesi fa la Shell abbia patteggiato un risarcimento di 15 milioni e mezzo di dollari "non per colpevolezza ma per aiutare il processo di riconciliazione" (qui un articolo del 9 giugno 2009 sul Corriere). Pare che il figlio di Ken Saro-Wiwa si sia dichiarato soddisfatto di vedere la multinazionale patteggiare, paragonando di fatto il risarcimento a un'ammissione di responsabilità, affermando che ci troviamo di fronte a un precedente che in futuro anche le aziende più potenti non potranno ignorare. Credo piuttosto che la Shell abbia deciso, dopo una lunga riunione con avvocati e tecnici di borsa, che 15 milioni di dollari sono comunque una cifra inferiore alle possibili perdite potenziali dovute a un coinvolgimento diretto nel processo.
I processi sono spesso come la storiografia: sembrano dar ragione a chi vince con la forza, mentre condannano chi è in posizione di inferiorità economica, militare, numerica; sarebbe però una mutilazione autoinflitta la perdita di fiducia nel ruolo e nella responsabilità dei processi: possiamo incrinare la nostra fiducia nei giudici, possiamo sostituirli, possiamo deridere gli scranni dei processi staliniani, inquisitori, corporativi, censori, ma non possiamo perdere di vista e sostituire le idee stesse che un giudice dovrebbe rappresentare.

venerdì 14 agosto 2009

Elzéard Bouffier e Justin Quayle

L'immagine di Elzéard Bouffier (Jean Giono, L'Uomo che Piantava gli Alberi, 1953), che piantando alberi in una desolata valle provenzale la trasforma in un paradiso terrestre, è senz'altro suggestiva e abbastanza attuale da ricacciare ogni accusa di retorica e banalità. La costanza, la dedizione e la fiducia sono doni che si coltivano come piante, immaginando o sognando i frutti che porteranno.

Pensandoci, saranno stati gli echi delle accuse (fondate o infondate) a Jean Giono di essere un collaboratore della Germania nazista che mi hanno fatto venire in mente con prepotenza - in un accostamento pindarico e improbabile - un altro personaggio che cura gli alberi. Justin Quayle è il protagonista del romanzo The Constant Gardener (2001) di John le Carré. Da questo libro Fernando Meirelles ha tratto un film del 2005 ricevendo anche numerosi riconoscimenti nonostante l'infelice e fuorviante tagline ("Love. At any cost.", che in italiano si può forse tradurre come "Anche il Botteghino ha le Sue Esigenze").

Justin Quayle vive a Nairobi con la moglie, l'attivista Tessa: Justin è un diplomatico, a capo dell'Alto Commissariato Britannico in Kenya. Per lui il giardinaggio è un'occupazione dominante e ossessiva, che lo impegna a fondo distraendolo e alienandolo completamente dalla violenza della realtà che lo circonda. I fiori e le piante di Justin sembrano immuni al dramma che si consuma all'esterno del giardino, ma la violenza entrerà inesorabilmente e prepotentemente anche nel campo visivo del giardiniere costante. Una storia che accosta la cruda durezza del documentario al tono monocorde del protagonista, piena di scaglie aguzze da ripensare in termini quasi allegorici.

L'opinione di Gautam Valluri sulla versione cinematografica del romanzo è qui.

giovedì 13 agosto 2009

L'opinione pubblica

http://cuaderno.josesaramago.org/2009/08/13/guatemala/

La politica è sempre stata legata a doppio filo con il potere giudiziario. Anche nel nostro paese, oggi più che mai lo è ancora di più: da una parte e dall'altra di barricate che condividono i programmi ma non le bandiere, i politici sono amici di magistrati, i magistrati vanno a cena da amici, i grandi gruppi finanziari pagano spesso la cena a tutti, e le briciole vanno a giornalisti e cugini scodinzolanti.

Mi fermo col timore di fare del qualunquismo, di fare - come si suol dire - di tutta l'erba un fascio, o un Fascio, o una Loggia.

In fondo il qualunquismo non è solo nemico del buon senso, ma anche delle persone che lavorano con passione e costanza per i valori della giustizia, della legalità, della verità: sono certo che anche in Italia ce ne sono tante. Con punti di vista differenti e il medesimo impegno combattono battaglie civili che forse poschissimi vedranno, riconosceranno, apprezzeranno.

Come cittadini e esseri umani non possiamo dimenticare che in Italia come in Guatemala l'opinione pubblica può molto, anche quando si finge di non sentirne le grida.

mercoledì 12 agosto 2009

Di re e bandiere

http://cuaderno.josesaramago.org/2009/08/12/un-rey-asi/

La notte del 10 agosto 2009 il sedicente Movimento do 31 da Armada ha collocato la bandiera della monarchia sul balcone del Paços do Concelho (il municipio di Lisbona) dichiarando di aver "restituito il favore" a chi il 5 ottobre 1910 instaurò la repubblica nel paese senza una consulta popolare. Nel loro blog c'è anche un interessante video dell'azione. La bandiera è rimasta sulla balconata per alcune ore.

Ancora una volta, essendo italiano non posso entrare nel merito delle ragioni e delle conseguenze dell'evento: il 9 maggio 1997 è successa la stessa cosa anche a Venezia, quando un manipolo di invasati ha scalato il campanile di San Marco per metterci la bandiera della Serenissima.
Guardando questo video mi chiedo soltanto: al municipio di Lisbona la sorveglianza non esiste? (e subito mi rispondo: e a Venezia, in piazza San Marco?)

Potrei allora parlare di Duarte Pio di Bragança, ma scrivendo di sovrani e pretendenti al trono finirei inevitabilmente per parlare anche di Vittorio Emanuele di Savoia, e preferisco evitarmi quello che sarebbe un inutile imbarazzo.

martedì 11 agosto 2009

Africa

http://cuaderno.josesaramago.org/2009/08/11/africa/

Mentre un'imbarazzata Hillary Clinton raccoglie onori e simboliche macerie in Sudafrica, non si può non pensare alle condizioni della gente e alle immense risorse di questo continente, che sono state anche la sua più grande condanna. En África los muertos son negros y las armas son blancas: è vero, i morti sono neri e le armi sono tutte di produzione bianca. Chi le usa invece è di ogni colore, sia bianco che nero.

I dittatori sono ancora tanti e - nelle parole di una donna africana - hanno la tendenza a giustificare il dramma dei propri paesi scaricando la responsabilità sul colonialismo e l'Europa.
Obama è entrato alla Casa Bianca con il motto "yes, we can", ma nei suoi discorsi in Africa ha ripetuto più volte "you can": senza deresponsabilizzare il nord e l'occidente, ha dichiarato apertamente che la via della giustizia e della democrazia in Africa deve essere tracciata dagli stessi africani. Solo un presidente di origini africane poteva permettersi di dirlo, e finalmente è successo: dove l'occidente ha portato la democrazia in Africa, nel giro di pochi anni è successo un disastro, e solo un percorso interno può portare a risultati duraturi. E' ovvio che, perché questo processo possa nascere e svilupparsi nell'Africa stessa, l'Europa e gli Usa lo devono permettere: smascherando i propri interessi economici, controllando la spregiudicatezza delle grandi multinazionali che appoggiano i regimi militari, abbandonando la maschera ipocrita dell'aiuto e dell'amicizia tra i popoli, scendendo nelle strade della concretezza e rinnovando completamente quel mastodontico aspirapolvere rotto che è la Fao. Ma l'Europa è lenta, fragile, indecisa, incoerente.

Nel frattempo sotto le parole, i commerci, le missioni, le crisi e le guerre, c'è chi si muove con molta più solerzia e ottenendo risultati ben più concreti: esiste una guerra fredda di alleanze, un nuovo colonialismo che lavora incessante e silenzioso, che compra petrolio e favore diplomatico, che regala un potente appoggio alle dittature. La Cina è entrata nei governi africani tramite le delegazioni commerciali, ed è decisa a restarci per sempre, traendone il massimo vantaggio possibile anche a scapito degli africani stessi.

giovedì 6 agosto 2009

Cecità di Federigo Tozzi

http://cuaderno.josesaramago.org/2009/08/06/la-sombra-del-padre-1/

Solo tre giorni fa scrivevo che le opere degli scrittori-innovatori sono la mappa dei loro pensieri ricorrenti, dei loro impulsi tradotti in parola. Naturalmente queste opere, messaggi e la stessa lingua che adoperano sono anche il bagaglio della loro esperienza, fatta di persone, eventi, scosse, successi, delusioni, sogni e incubi. A proposito di incubi, di uno scrittore che apprezzo molto leggo una frase particolarmente calzante su Wikipedia: "la realtà gli si impone con la violenza massiccia dell'incubo dell’esperienza personale per poi essere ritrasportata, sempre sotto forma di incubo, nelle sue opere".

Si tratta di Federigo Tozzi, la cui intensità e bravura abbiamo riscoperto solo 40 anni dopo la morte. Per giunta, ci è voluto proprio un figlio - suo figlio Glauco - per riordinarne il materiale riportando alla luce quegli scritti che oggi i critici paragonano alle pagine di Kafka e Dostoevskij.
Tozzi mise su carta la tempesta di frustrazione che si portava dentro: cercava di controllare e possedere attivamente la realtà, ma inesorabilmente ne veniva disarcionato.
I suoi romanzi sono tutti autobiografici, nel senso più largo del termine: a coincidere, tra i suoi libri e la sua vita, non sono gli eventi, ma le condizioni, le debolezze, gli urti.

In Con gli occhi chiusi raggiunge una poetica e una capacità introspettiva fuori del comune: lascia fluire sulla carta tutta la sua rabbia, passione, delusione e cecità di fronte alla realtà. Il suo è quasi un suicidio dei sensi, il liberarsi di un peso, uno svenarsi febbrile e catartico. C'è di mezzo una donna (Ghisola nel libro, Isola nella realtà) di cui l'autore e il protagonista non vedono l'inconsistenza e le bassezze, trascinandosi dietro a lei con cieca e caparbia dedizione.
Pare che Tozzi abbia scritto ben otto finali diversi per questo romanzo: perché non otto versioni, ma otto finali? Semplice insoddisfazione, pudore, o la volontà di cambiare un passato che non riusciva a intepretare o gestire? Si tratta di otto specchi deformanti per guardare Isola e se' stesso, con curiosità o morbosa frustrazione? Oppure di otto lenti d'ingrandimento per interpretare e analizzare la propria percezione e l'origine di un malessere? Ne scelse uno solo, non so se per imposizione editoriale o per decisione personale.

In fondo, a volte bisogna prendere delle decisioni anche quando le opzioni sembrano tutte uguali, anche quando sembrano tutte insoddisfacenti.

mercoledì 5 agosto 2009

Differenza tra i colori del Gay Pride e quelli di Almodóvar

http://caderno.josesaramago.org/2009/08/05/almodovar/

Parlando di Almodóvar vengono in mente i suoi personaggi assurdamente veri, i suoi ritratti ironici e caparbiamente ancorati a drammi e miserie tanto incredibili quanto dolorosamente reali. Il suo messaggio è intriso di lirismo, di colori sgargianti, in un persistente ossimoro di festa tragica: il risultato è uno spettacolo grottesco e funambolico della vita, che sconvolge la percezione dello spettatore. Si resta schiacciati e confusi di fronte a immagini psichedeliche e accattivanti in cui sfilano perdite, disastri (anche interiori) e scontri con una sorte inesorabilmente avversa. Non a caso, tra luci e ombre caleidoscopiche e visionarie, i temi che dominano le sue pellicole sono i margini della società, tradotti nel disprezzo per il potere e per i religiosi incoerenti, l'esplicitazione della passione e del sesso, l'allusione al dramma della pedofilia, l'immancabile presenza dell'attrazione omosessuale. E' un cinema affascinante proprio per il suo estremo contrasto di immagine e messaggio, e forse questo concetto è ciò che ancora manca al movimento internazionale per i diritti degli omosessuali: manifestazioni come il Gay Pride (almeno nella riproposizione altamente selettiva e spettacolarizzata dei media) raccolgono - tra tanta gente meravigliosamente anonima - personaggi coloratissimi e in costumi e atteggiamenti fortemente provocatori. E' come se l'omosessualità equivalesse a originalità, destabilizzazione, persino carnevalata, ma qui il colore non vuole più essere messaggio di stridore col dramma della discriminazione: probabilmente è solo voglia di festeggiare e mostrare in libertà il proprio essere, e non c'è niente di intrinsecamente negativo in questo, ma io preferirei un Gay Pride completamente composto e dignitoso, come è dignitoso essere omosessuali. Non è necessario essere omosessuali per avere sete di uguaglianza e libertà: mi piacerebbe vedere uomini e donne insieme a vecchi, bambini, preti, militari, politici e contadini, anonimamente (ma non nascostamente) uniti a dimostrare che l'omosessualità non è un'opzione di originalità e colore, ma un modo di essere assolutamente normale. In futuro ci saranno altri fini e forse altri mezzi, ma oggi i movimenti per il diritto alla libertà omosessuale dovrebbero - a mio avviso - puntare a sgombrare il campo dal vecchio equivoco e pregiudizio, mostrare innanzitutto che gli omosessuali sono persone normali, come la vicina di casa, il vecchio compagno di scuola, l'edicolante dietro l'angolo, l'agente immobiliare.

Oltre Cartesio: intrinseca onnipresenza dell'essere

http://caderno.josesaramago.org/2009/08/04/patio-do-padeiro/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/08/04/patio-do-padeiro/

Come l'erba sono i giorni dell'uomo,
come il fiore del campo, così egli fiorisce.
Lo investe il vento e più non esiste,
e il suo posto non lo riconosce.

(Sal 102,15-16)

Luoghi e persone sembrano morti e passati. Non esistono più quei luoghi, quelle persone, e l'ombra del rimpianto vela gli occhi di chi, per nostra stessa natura, è sensibile all'amarezza del ricordo, fragile all'impermanenza delle cose. Ma il tempo non è lineare: siamo costretti all'illusione della consuetudine di considerare il passato dietro di noi, e il futuro davanti. Invece tutto accade contemporaneamente e nello stesso luogo: mentre scrivo il mio corpo è sparso in atomi che si combinano ad erba, stelle, pietre e polveri; mentre scrivo sono neonato in braccio a mia madre, scendo da un treno, cammino in un bosco, cado da un albero, raccolgo la legna, e sono intanto in ogni altro luogo e tempo. Sono polvere fredda intorno a Giove, nuvola sul mare, veicolo di civiltà remote, scala di legno a Mohenjo-daro, sabbia di deserto, brodo di pollo, urina di topo, fossile rosso, sangue di gabbiano. Non c'è niente prima né dopo di me, perché io sono, anche quando non penso: ho pensato, e ormai sono stato; quindi sono ancora, continuo ad essere, eternamente e ovunque.

lunedì 3 agosto 2009

Impulso e innovazione

http://caderno.josesaramago.org/2009/08/03/gabo/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/08/03/gabo/

Nel loro ruolo di tradurre il pensiero in parola scritta, gli innovatori sono coloro che scrivono mossi da un impulso inarrestabile, strettamente legato al proprio stesso essere: mi vengono in mente personaggi come Yukio Mishima (三島由紀夫) e a Joseph Conrad, il primo ossessionato dall'idea della bellezza e della morte, il secondo dalle ombre dell'animo umano. Se il motore dell'intento è potente, se ciò che vogliamo tradurre è imperioso e volitivo, gli umani limiti vengono sbalzati lontano, anche soltanto (se soltanto si può dire) a livello stilistico e linguistico: dei tanti giapponesi che ho conosciuto, quasi tutti ammettono che per loro leggere Mishima è "troppo difficile", e il ricchissimo inglese di Conrad non era che la sua terza lingua, dopo il polacco e il francese. Le opere di questi e altri innovatori sono la mappa dei loro pensieri ricorrenti, dei loro impulsi tradotti: dopo averne lette le pagine avremmo potuto incontrarli per strada e chiacchierare con loro come vecchi conoscenti (oppure - in certi casi - evitarli con rispettosa cura e un velo d'inquietudine).
Dall'ombra alla luce, mi piace ricordare anche Carlo Dossi: forse non un genio innovatore, ma uno scrittore che mi sembra quasi di sentir ridere tra se' mentre scrive e gioca a mescolare latino e dialetto; se non fosse morto nel 1910 sarebbe valsa la pena di fargli una telefonata e invitarlo a bere un bicchiere di bonarda in Oltrepò Pavese.

giovedì 30 luglio 2009

Lupus et agnus

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/30/a-abjuracao/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/30/labiura/

Secondo Antonio Messori, Galileo Galilei non sussurrò affatto la famosa frase "e pur si muove!" al termine della propria abiura: si tratterebbe invece di un'invenzione del 1757 ad opera di Giuseppe Baretti. Forse è vero, ma sono false le affermazioni di Messori secondo cui Galileo sarebbe stato trattato molto onorevolmente prima e dopo il processo, ottenendo di fatto piena libertà e indulgenza:

(...) convocato a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede), in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida villa dei Medici al Pincio. Da lì, il "condannato" si trasferì come ospite nel palazzo dell'arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo "Il gioiello".
Non perdette né la stima né l'amicizia di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e ne approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro - Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze che è il suo capolavoro scientifico. Né gli era stato vietato di ricevere visite, così che i migliori colleghi d'Europa passarono a discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo: quello di recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali.


Queste affermazioni sul processo sono scritte in modo magistralmente subdolo, mentre basta consultare wikipedia per conoscere la verità: se pure non fu mai torturato fisicamente, Galileo cercò più volte di evitare il processo, venne trattenuto a lungo contro la sua volontà, venne lasciato ad aspettare per settimane senza una parola, e dovette abiurare semplicemente per evitare la condanna a morte. Solo 17 anni dopo gli vennero concessi quelli che oggi chiamiamo "arresti domiciliari" nella sua villa di Arcetri.

Oggi la posizione della Chiesa di Roma è ridicolmente, incomprensibilmente ambigua. Nel 1992 (cito Wikipedia) il cardinale Poupard scrive che la condanna del 1633 fu ingiusta, per un'indebita commistione di teologia e cosmologia pseudo-scientifica e arretrata, anche se veniva giustificata dal fatto che Galileo sosteneva una teoria radicalmente rivoluzionaria senza fornire prove scientifiche sufficienti a permettere l'approvazione delle sue tesi da parte della Chiesa.* Ma nel 1992 come si può giustificare (per qualsiasi motivo) una condanna accompagnata dalla minaccia?

Già due anni prima (1990) l'allora cardinale Ratzinger in un discorso all'Università la Sapienza di Roma cita una frase di Paul Feyerabend (senza prenderne espressamente le distanze) che scatena una putiferio politico, sociale e culturale:

«La Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione»

C'è chi accusa Ratzinger di condividere questa frase, c'è chi lo difende puntualizzando che è solo una citazione, chi si chiede perché Ratzinger non l'abbia condannata espressamente, chi si domanda perché mai abbia deciso di citarla (senza peraltro sviscerarne il significato e prendere posizione).

Nel frattempo, ad maiorem Dei (et veritatis) gloriam i Gesuiti della Specola si dissociano dal tepore della "riabilitazione" galileiana, e condannano l'atteggiamento arretrato del papa. I Gesuiti restano in gran parte persone serie e critiche, e la cosa non può che far piacere. Se ne parla qui, citando anche un libro che mi sembra interessante:

Annibale Fantoli, "Il caso Galileo. Dalla condanna alla ´riabilitazione´. Una questione chiusa?", Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2003, pagine 280, euro 8,50.

Ma infine oggi cos'è importante? Credo che l'importante sia che Galileo abbia abiurato: con l'abiura ha dimostrato di essere sotto minaccia di morte, e pronunciato le parole di un agnello che ammette di sporcare l'acqua a un lupo. Questa abiura è anche un monito per noi posteri a prestare attenzione a chiunque imponga un pensiero, di qualsiasi natura e valore, e un invito a mettere ragionevolmente da parte le proprie convinzioni di fronte alla minaccia della morte e all'opportunità di restare vivi, nella convinzione che un giuramento estorto non abbia alcun valore né davanti alla scienza, né davanti agli uomini, né tantomeno davanti a Dio.

Glocale, non solo internazionale

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/29/e-pur-si-muove/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/29/e-pur-si-muove/

Ieri mattina a Burgos un'autobomba con 200 chili di esplosivo ha sfiorato una strage: ricordando al mondo la pericolosa presenza dell'Euskadi Ta Askatasuna, ha anche dimostrato che l'Iberia è un paese tutt'altro che unito nelle aspirazioni e negli intenti. Al contrario si tratta di una terra che - come l'Italia stessa - è composta da molte realtà e molte culture: da un lato il popolo iberico ha una forte memoria collettiva, un comune patrimonio culturale e molti valori da condividere, dall'altro è necessaria una riflessione sull'opportunità di un'unione politica, e soprattutto sulla natura di questa ipotetica unione, perché siano valorizzate le realtà locali.
Lo stesso discorso vale per l'Italia, oggi alle prese con un'idea federalista che - tra grandi potenzialità - rischia il pasticcio in un clima in bilico tra l'inconcludenza, l'orticellismo campanilista e il piduismo.

In generale, guardando all'Europa, all'Italia e a tanti altri paesi postcapitalisti, la soluzione ottimale mi appare sempre più simile a un'unione vasta e coesa per intenti politici e di collaborazione economica, lasciando tuttavia il più ampio spazio possibile alle realtà locali. In breve, la politica e i gruppi sociali che funzioneranno in futuro non saranno globali, ma glocali: se la globalizzazione ha registrato un violento scossone finanziario, culturale, politico, con i suoi stessi strumenti è anche possibile superarne i limiti e guardare alla valorizzazione delle realtà piccole, ma ovviamente non si tratta soltanto di conservare il dialetto milanese, la vera mozzarella campana o il grecanico. Un obiettivo è progredire verso una gestione più indipendente del territorio da parte dei suoi stessi abitanti, che ne conoscono meglio i problemi e le potenzialità, che possono prendersene carico direttamente e anche allacciare relazioni di confronto e cooperazione con altre realtà locali; nel perseguirlo occorre però per evitare l'effetto collaterale più prevedibile (ma oggi meno ovvio che in passato), quello della chiusura nazionalista e del ripiegamento culturale su se' stessi.

Forse la stessa Rete è l'esempio più calzante di come una società possa autoregolarsi ed evolversi facendo convivere una realtà planetaria con realtà locali: un sistema globale in cui nessuno è davvero presente globalmente.
Tutti possono andare (quasi) dovunque, ma ognuno si limita ad accessi frequenti in pochi luoghi o schemi abituali: forum, chat, gruppi chiusi, siti preferiti, argomenti preferiti, ecc. Ogni gruppo e' un piccolo mondo a sé, spesso un mondo minuscolo: finché il mondo è piccolo (ma non isolato) funziona tutto al meglio. Nessuno è limitato a restarsene soltanto lì, ognuno contribuisce al suo sviluppo, e i microcosmi crescono di contributi e confronti biunivoci, solo raramente universali.

martedì 28 luglio 2009

Christian Commitment

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/28/direito-a-pecar/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/28/diritto-di-peccare/

Un sistema "giudiziario" basato sul peccato mi appare come una completa distorsione del vero messaggio evangelico. Ho già citato più volte il grande teologo indipendente Hans Küng, il professore di Tubinga, l'umanissimo esperto biblico, il fondatore di Weltethos (Etica Mondiale), l'uomo che non ha paura di collocare Ratzinger e Wojtyła tra i Nominalmente Cristiani, in contrapposizione ai Veri Cristiani. Ed ecco che appare ancora tra queste righe, com'è forse inevitabile parlando di etica e religione.

Invito chi passasse di qui - magari per caso - a leggere il passo iniziale del 4 capitolo del suo libro Why I am still a Christian (alle pagine 31-34, che si possono raggiungere gratuitamente - in traduzione inglese - come anticipazione su Google Libri): è un brano che mi sembra ricco di implicazioni profonde, ben più potenti di quanto potrebbe apparire a una lettura superficiale; soprattutto dipinge una visione appassionata e affascinante di Dio e della religione, in una prospettiva che molta umanità sembra ancora non riuscire a cogliere come naturale. Il lungo passaggio che ho scelto comincia col titolo Where Do I Get My Christian Commitment from?, e si conclude con questa frase:

"God puts himself on the side of the disadvantaged, the underprivileged, the oppressed, the weak, the poor and the sick, and even - unlike the self-righteous - on the side of the irreligious, the immoral and the godless. God is kind, wonderfully kind, to human beings."

Uomini, donne, individui

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/27/problema-de-homens/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/27/problema-di-uomini/

Sul rispetto e la valorizzazione della donna, dall'Italia non possiamo fare sermoni a nessuno: siamo il paese dei mammoni, ma anche il paese del sessismo (pure nella pubblicità), del calendarismo, delle veline ministre, del turismo sessuale, del testosterone e del viagra, il paese di tanta gente che sogna di partecipare a reality show o a festini luculliani a villa Certosa. Siamo un paese dove l'assicurazione sugli infortuni domestici delle casalinghe è un'imposizione col retrogusto della presa in giro. Il paese dove due finanzieri violentano una prostituta. Il paese in cui professionalità e stipendi sono ancora legati più al sesso che alle competenze, e anche il paese che l'Europa minaccia di sanzionare per le discriminazioni sull'età pensionabile dei dipendenti pubblici (argomento complesso e ricco per cui mi impongo di non fare digressioni).

La discriminazione delle donne ha sicuramente radici culturali profonde e lontane, ma è anche parte del più generale dramma della violenza verso chi è in minoranza o più debole (penso ai lavoratori precari o disoccupati, ai bambini, agli omosessuali, ai portatori di handicap, agli stranieri, ai nuovi poveri). In passato ho già avuto modo di scriverlo: il progresso tecnologico e le trasformazioni sociali degli ultimi 40 anni non sono stati accompagnati da una crescita etico-culturale parallela. Mentre l'etica diventa anoressica e si infrange in un vuoto nichilista, serpeggia l'idea che l'oggetto del desiderio sia un diritto acquisito, e che per ottenerlo siano giustificati tutti i mezzi e le vie: le conseguenze sono nelle pagine di cronaca e di economia.

In Italia - tra i tanti problemi - siamo anche fatti così: non vediamo individui, vediamo solo uomini oppure donne (oppure stranieri, oppure gay ecc.) con le caratteristiche del singolo che vengono subordinate ad un folto sottobosco di stereotipi. Le reazioni di contrasto a questa visione si sono spesso dimostrate lente e arretrate, come la pretesa di esigere "una donna uguale all'uomo", concetto malato che crea un paradigma maschile ideale con cui confrontarsi, e quindi implicitamente superiore. In passato ci siamo anche nutriti della presunzione esplicita che l'uomo fosse migliore della donna o viceversa: abbiamo sostenuto le nostre tesi con motivazioni come la resistenza al dolore della donna, la forza dell'uomo, la presunta maggiore sensibilità e intelligenza dell'una o dell'altro, ecc. Fortunatamente la donna non è uguale all'uomo, e non è né migliore né peggiore. Ovviamente, è nella diversità che c'è la ricchezza, nel confronto la crescita, nel rispetto il progresso.

venerdì 24 luglio 2009

Una donna in un giardino

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/24/um-capitulo-para-o-evangelho/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/24/un-capitolo-per-il-vangelo/

Dalla cucina la sento muoversi in giardino. Scosto un poco la tenda e guardo fuori: ha in mano un annaffiatoio di plastica verde, bagna i tageti, i gerani e le piantine di faggio, magnolia, oleandro. Sembra muoversi con tranquilla disinvoltura, una donna normale in un giardino normale mentre compie un gesto normale, anonima e serena quotidianità. Bisogna guardarle gli occhi per vedere la differenza: quegli occhi mai stati ciechi guardano l'acqua sgorgare e cadere, si posano sulle foglie e su un insetto, lì si svuotano e si fermano per un lungo istante di apnea. L'acqua continua a scivolare dalla plastica alla terra e gli occhi rimangono immobili, sbarrati e vitrei per un'eternità di inconsapevole biancore. Il vicino di casa sta passando a piedi per strada, si avvicina alla rete, non si accorge di nulla: è allegro per qualche ragione, e mentre le da' il buongiorno alza persino il braccio nonostante sia lì a quattro metri. La donna alza appena la testa, la vita ritorna controvoglia negli occhi e cala negli angoli della bocca in un sorriso stanco, la cui stanchezza il vicino non saprà scorgere. Buongiorno signora, come sta?, Non mi lamento, grazie, e lei? Molto bene, mi saluti suo marito, mi raccomando, Senz'altro, buona passeggiata - Di nuovo a rispondere Bene alla domanda Come sta, senza una pretenziosa utopia di verità che potrebbe complicare dei banali convenevoli tra semplici conoscenti. Lui si allontana tutto contento, lei ritorna alla terra e ai tageti.
Riaccosto la tenda prima che la maschera di serenità lasci il viso di mia moglie. Non voglio vedere riflesso nell'acqua dell'annaffiatoio quel che lei ha visto quando ero cieco: sia la coscienza di quel che siamo o la coscienza di aver ucciso, magari la paura che esista anche solo una remota possibilità che accada di nuovo, o la spossatezza che dopo due anni non ha ancora lasciato il suo corpo. E' qualcosa di cui non abbiamo più parlato, non tra noi, non tra vicini, non tra cittadini, connazionali, esseri umani; qualcosa di cui nessuno parla più, un imbarazzo inspiegabile, come una cospirazione immonda, il ricordo condiviso e taciuto di una colpa incancellabile. Mi allontano dalla finestra, mi siedo, torno ai miei appunti sul nervo ottico e la miopia: tutti sembrano tornati sereni, hanno riacquistato la vista e la vita quotidiana. Lei no.

giovedì 23 luglio 2009

Cinque stranieri nel cinema

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/23/cinco-filmes/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/23/cinque-film/

Conosco troppo poco di cinema, e comunque cinque sono troppo pochi: citare solo cinque film sarebbe una costrizione simile a iniziare una dieta di fronte ad un grande vassoio di dolci siciliani; per questo motivo citerò cinque persone che mi piacciono nel mondo del cinema, senza alcuna pretesa di completezza né di citare i migliori o i più importanti. Soprattutto, senza alcun ordine di preferenza ed escludendo tutti i nomi italiani.

A caso, il primo che mi viene in mente è George Clooney: lo trovo un personaggio intelligente che ha saputo scrollarsi di dosso l'immagine di divo sexy (salvo ripescarla ogni tanto per rimpinguare il portafogli) e andare per la sua strada. Ogni tanto recita in qualche film spazzatura, ma in genere tenta di scegliere bene: tra l'altro ha prodotto e recitato anche in Syriana (del 2005), un film per me memorabile, intriso di cinico realismo.

Come (e meglio e prima di) Clooney, Clint Eastwood ha saputo cambiare pelle in modo intelligente: dopo il successo giovanile dei suoi Spaghetti Western e tanti film nel ruolo del duro (da Where Eagles Dare a Dirty Harry) ha buttato sigaro e pistola e con gli anni è migliorato come il whisky. Di recente, dalla bella Carmel-by-the-sea sforna idee interessanti e a 75 anni ha un sacco di progetti in cantiere.

A prescindere dai film in cui ha lavorato (alcuni davvero scadenti) trovo Scarlett Johansson semplicemente molto brava: sembra nata per recitare.

Javier Bardem: anche lui ha partecipato a film belli e film meno che mediocri, ma in No Country for Old Men ha trovato sé stesso regalando ai fratelli Coen un personaggio meraviglioso per un film stupefacente.

Dakota Fanning, perché è giovanissima e molto promettente. Ha iniziato a recitare a circa 8 anni d'età e fin da subito ha dimostrato una maturità e un carisma che potrebbero trasformarla nella prossima Johansson. Adesso ha 15 anni: speriamo in bene.

Sono arrivato a cinque e non ho parlato di Sean Connery, Robert Redford, Terry Gilliam e tanti altri: temo che resterò tutto il giorno con l'insoddisfazione della dieta forzata.

mercoledì 22 luglio 2009

Lario

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/21/montana-blanca/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/22/montana-blanca/

Sono nato tra montagne e laghi, e vi ho trascorso infanzia e giovinezza senza mai annoiarmi o abituarmi alla loro bellezza mozzafiato. Mi ci trovo anche adesso, in una specie di ritorno o vacanza.

Le pareti grigie e bianche di roccia sono imponenti, hanno strane forme dai nomi aguzzi come Corni, Resegone, o come la grande Grigna che nella mitologia popolare è una guerriera bellissima e crudele, assassina del suo innamorato. Le pareti dure e corrusche dominano con immobile imponenza un paesaggio di colli più bassi e mobili, ondulati. Toni grigiazzurri di calcare e dolomia vengono spesso gelati dalla neve: contrastano duramente con il verde caldo delle colline, che sembrano foderate di spesso muschio piuttosto che di alberi.

Insieme all'azzurro del cielo e al bianco delle nuvole, le pietre e le foglie si specchiano e sfocano nella lentissima acqua di bottiglia dei tanti laghi locali, in una tavolozza che probabilmente sarebbe piaciuta molto al Monet di cui ho scritto tempo fa.

E' un paesaggio che continua a trascinarmi in un'inesauribile contemplazione: ogni volta che me ne allontano impiego qualche tempo ad orientarmi nel vuoto orizzonte della pianura o del mare, come se per un po' - prima di abituarmi all'assenza di pareti di pietra intorno a me - mi sentissi quasi nudo e privo di protezione.

martedì 21 luglio 2009

月亮

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/21/lua/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/21/luna/

Alcuni scettici ritengono che l'uomo non sia mai arrivato sulla luna. Le loro idee sono state definite cospirazioniste, ma in fondo oggi una simile falsificazione da parte di un governo non appare più tanto "cospiratoria": coprire la verità è semmai diventata una routine quotidiana, ormai praticata con consumata maestria su molteplici fronti.

Comunque sia andata, e per quanto oggi importi, nel 1969 gli americani non solo avevano una forte motivazione a cercare un successo planetario, ma sicuramente anche un disperato bisogno. La loro tecnologia spaziale era molto meno sviluppata di quella russa, le loro probabilità di far giungere un uomo sulla luna e di farlo tornare indietro erano stimate a meno dell'1%, ogni settimana portava dal Vietnam 300 cadaveri americani, nuovi movimenti ideologici squassavano il paese, il credibility gap si allargava e gli elettori volevano che Kennedy mantenesse la famosa promessa fatta nel 1961 di fronte al Congresso ("to achieving the goal, before this decade is out, of landing a man on the Moon and returning him safely to the Earth").

Forse oggi non è più così importante sapere se Neil Armstrong abbia messo piede sulla luna o in uno studio cinematografico, ma è interessante guardare indietro ad alcuni dettagli nella comunicazione dell'evento; ne emerge un immaginario che fa quasi tenerezza nel proporre e propagandare l'operazione Apollo 11: dall'aquila come simbolo della missione al conseguente titolo sul Washington Post ("The eagle has landed"), dall'idea di portarsi dietro (e fotografare) la bandiera americana, alla celebre frase di Armstrong ("That's one small step for a man, one giant leap for mankind"), dalla foto dell'impronta umana sul suolo, fino ai presunti problemi di carburante e ossigeno che tennero col fiato sospeso il pubblico (mentre si passava dal pilota automatico al comando manuale, ormai una ricorrenza letteraria tanto inflazionata da apparire risibile in fantascienza). Con questi, altri mille dettagli spaziano dal grottesco al curioso, dalla propaganda patriottica al tecnicismo puerile, e portano con se' la nostalgia per il candore di un grande pubblico americano che - pur critico inflessibile della guerra e delle convenzioni conservatrici - sapeva stupirsi e farsi avvincere, forse anche abbindolare.

Per amore di disgressione: l'incongruenza che preferisco riguarda quella sorta di mestolo che Armstrong avrebbe usato per raccogliere campioni del suolo. Pare che i tecnici della Nasa avessero fatto provare centinaia di volte il gesto all'astronauta, mentre il poveretto continuava a ripetere spazientito "sì, ho capito, ho capito". Il problema - a detta dei tecnici - era che la raccolta dei campioni doveva essere svolta con un gesto dolce ma al contempo deciso, senza esitazioni: sulla luna un movimento simile avrebbe infatti potuto sollevare una nube di polveri potenzialmente dannosissime per i delicati strumenti elettronici del modulo lunare. Ma durante l'allunaggio non si sollevarono polveri dannose?

A parte questi divertimenti accademici, più di qualsiasi presunta cospirazione o propaganda di allora sembra interessante l'eco che si sta dando oggi a quell'evento. Dal 1972 non andiamo più sulla luna: perché? Se abbiamo perso interesse per il nostro splendido satellite, se non ne vale la pena, se abbiamo dato fondo al suo potenziale scientifico, allora perché oggi ci autocelebriamo tanto in quello che in fondo potrebbe o dovrebbe apparire come un insuccesso? O dovremmo riconoscere che la luna è più affascinante da lontano, e tanto vale restarcene su quest'atomo opaco del Male ad ammirarne e cantarne la bellezza?

lunedì 20 luglio 2009

Comunicatori in politica

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/20/jardinices/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/20/jardinizie/

Anche in Italia ne abbiamo di simili: gente che promette di uscire dalla politica e poi non esce (come Veltroni) e gente che si arroga diritti speciali e poteri straordinari (come Berlusconi).

Un grande problema della 'moderna' - si fa per dire - politica italiana è che il popolo permette ai propri governanti (o aspiranti tali) qualsiasi cosa, in un'atmosfera nebulosa della quale non si capire la composizione: parti di indifferenza, parti di sfiducia, molecole di disinteresse, corpuscoli di rabbia e impotenza.

Quel che è certo è che la gente non è certo soddisfatta e fiduciosa nei confronti dei propri amministratori: la distanza tra politici e persone si allarga e - oltre ai tanti che per interesse restano incollati al cadreghino - nel favore delle masse si salvano solo quelli che riescono a emergere come grandi comunicatori [chissà quando se ne accorgeranno e renderanno pubblica questa semplice verità, i meteorologi del parlamento].

Gli altri - i politici tradizionali - sono rimasti indietro: si aggirano come zombi senza capire che la fiducia degli elettori si guadagna condividendo con loro il proprio operato, le proprie idee e i propri progetti e sogni, in un coinvolgimento che deve essere attivo e continuo.

Altrimenti, ora più che mai, arrivare direttamente alla gente e riuscire a farsi ascoltare è molto difficile: con vie e visioni molto diverse, da noi ci riescono solo Berlusconi e Grillo. E' recente il tentativo di quest'ultimo di correre, a sorpresa, per la segreteria del PD, e non stupisce che alcuni sondaggi non ufficiali lo diano come il favorito, con un distacco smisurato nei confronti di D'Alema, Veltroni, Marino, ecc.

A questo punto sorge spontanea una riflessione: se io - donna o uomo politico - non sento la distanza e la sfiducia della gente nei miei confronti, che razza di incapace sono o sono diventato? E se invece riesco a percepire questa sfiducia e questa distanza, con che faccia e che dignità me ne sto tranquillamente al mio posto?

Mi piacerebbe capire come - in una posizione di potere - si possa riuscire a evitare questo semplice ragionamento; o forse se riuscissi a capirlo quel che concluderei non mi piacerebbe.

sabato 18 luglio 2009

Tra gli zigomi e le rughine degli occhi

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/17/historias-da-emigracao/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/17/storie-di-emigrazione/

E' famosa una battuta di Orson Welles: "In Italy for 30 years under the Borgias they had warfare, terror, murder and bloodshed, but they produced Michelangelo, Leonardo da Vinci and the Renaissance. In Switzerland, they had brotherly love and 500 years of democracy and peace, and what did that produce? The cuckoo clock."

Ovviamente si tratta di uno scherzo: non è stata certo la violenza a produrre Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento, e poi la Svizzera ha inventato anche la Croce Rossa, le lenti a contatto, il telegrafo elettrico, il giornale quotidiano, la matita, il motore a combustione interna e altre cose (tra cui - ahimé - anche l'orrore della vivisezione).

La battuta di Welles stilizza un sospetto che fa riflettere e che tempo fa fu pubblicato pari pari anche dal Financial Times: l'idea che l'Italia - o forse l'Europa intera - stia diventando una gigantesca Svizzera benestante e chiusa, culturalmente immobile, militarmente inconsistente, politicamente inesistente [lo scrivo ovviamente col massimo rispetto degli svizzeri: 15 chilometri più su e ci sarei nato anch'io; magari avrei persino imparato il pugliese, che è tra i dialetti più diffusi a Lugano]

Anche qui giù [intendo a sud di Lugano] viviamo in un paese sempre più terrorizzato e indignato dalla criminalità d'importazione, un paese che rischia di chiudersi a riccio acriticamente, in una beatamente inconsapevole cancrena etica e culturale. Eppure basta guardarsi allo specchio e cercare, tra gli zigomi e le rughine degli occhi, il riflesso dei nostri antenati longobardi, iberici, germanici, greci, arabi: mi guardo e scommetto che i miei bruciavano le guance ai neonati per non fargli crescere la barba, e mangiavano carne cruda dopo averla scaldata sotto la sella del cavallo. Abbiamo tutti nel codice genetico un po' di barbarie, un po' di civiltà, un po' di emigrazione, un po' di stanzialità, un po' di nomadismo.

Un volo pindarico in radio mi conduce alla stessa conclusione: tra gli altri programmi, Radio 24 ha oggi trasmesso l'intervista a uno dei curatori del libro "Dall'Etiopia a Roma - Lettere alla madre di una migrante in fuga". Non l'ho ancora letto e sembra interessante: si tratta di un libro basato sull'esperienza e le memorie di una ragazza africana che ormai da tempo - dopo un duro viaggio, molte peripezie e un periodo di vita complicato - vive e lavora come cameriera a Roma.
I curatori Michele Colloca e Mussie Zerai Yosief sono due amici della protagonista, ed è stata la stessa autrice delle lettere a stimolarli a sviluppare questo progetto: non soltanto un romanzo realistico e verosimile, ma un'esperienza reale a cui sono stati soltanto cambiati i nomi propri per motivi di sicurezza. Al di là degli aspetti più intensi della vicenda, il libro punta anche a sottolineare un'ovvietà a beneficio di chi ancora sembra ignorarla, ovvero che l'emigrante ha i nostri medesimi desideri e aspirazioni, le nostre stesse paure, debolezze, affetti e pulsioni: la barriera della diversità culturale è quel muro di carta che il tempo finirà fortunatamente per smitizzare e consumare.

Concludo con un'attualissima lettera di un altro immigrato che vale la pena di leggere tutta, fino in fondo, giù fino alla firma.

giovedì 16 luglio 2009

Iglesia de San Juan Bautista, Alarcón

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/16/as-cores-da-terra/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/16/i-colori-della-terra/

La Iglesia de San Juan Bautista di Alarcón (coordinate) è stata costruita nel XVI secolo. E' un bell'edificio romanico che nel corso della storia è stato sconsacrato e destinato ad altri usi. Nel 1995 il pittore Jesús C. Mateo (nato nel 1971) ha iniziato a dipingerne gli interni col suo colore potente e il suo stile evocativo, che al contempo si fondono e contrastano in modo sorprendente con le colonne grigie dell'unica navata. Dal 1997 la chiesa è patrocinata e protetta dall'Unesco, e attualmente ospita il Centro de Arte Pintura Mural de Alarcón. Internet ci da' la possibilità di visitare virtualmente l'edificio, ma un'opera così originale merita senza dubbio un viaggio per sostare in silenzio tra le mura e perdersi nei colori e nelle forme che trasformano queste pareti in un universo pulsante fatto di una surreale tangibilità.
Resta un dubbio: che cosa c'era su queste pareti prima dell'intervento di Jesús Mateo? Speriamo che non esistessero dipinti romanici o rinascimentali, altrimenti ci sarebbe di che strapparsi i capelli.
Nel caso non fossero rimaste che pareti spoglie, interventi come questo dimostrano consapevolezza e senso della storia; è nella storia che continuiamo a vivere, e che non possiamo esimerci dall'intervenire: simili opere dovrebbero farci riflettere sull'opportunità di continuare a costruire e modificare, dove l'arte e la funzionalità lo richiedano. Il rispetto della tradizione - di cui ho scritto di recente - non può infatti far chiudere gli occhi al futuro, e deve anzi deve rifuggire un'aprioristica sacra intoccabilità di ciò che è stato fatto in passato. L'alternativa è trasformare la vecchia Europa (soprattutto l'Italia) in un gigantesco museo del passato, inamovibilmente e stancamente destinato al solo consumo turistico: verrebbe in mente l'agonizzante Venezia, se un recente guizzo fuori dal fango non le avesse almeno regalato (si fa per dire, visti i 12 milioni di euro di realizzazione) il bel ponte della Costituzione del geniale Calatrava.

mercoledì 15 luglio 2009

Alvaro Siza Vieira

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/15/siza-vieira/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/15/siza-vieira/

E' sempre difficile parlare di architettura senza essere architetti o storici. Senza competenze, degli edifici restano sensazioni e opinioni soggettive, insieme alla fruibilità oggettiva, perché in ultima analisi sono i profani (non gli architetti) che usano gli edifici: nel Rinascimento poteva capitare che un cliente insoddisfatto si rifacesse sulla testa del malcapitato architetto. Oggi purtroppo non si può più.

Personalmente credo che Alvaro Siza abbia progettato edifici stupendi nella loro solida e immacolata semplicità: penso alla biblioteca di Viana do Castelo, la Cornella Swimming Pool di Barcellona, il padiglione portoghese dell'Expo 1998, forse anche la Adega Mayor Winery, ma per conoscerne la fruibilità andrebbero visitati, anziché visti in foto.

Basta però cercare Alvaro Siza su Flickr per trovare anche opere molto discutibili, più consone al socialismo reale russo che alla vecchia Europa (ad esempio la Cooperativa Águas Férreas).

Siza è considerato un architetto eclettico e versatile, che cerca di adattare gli edifici all'ambiente che li circonda, ma purtroppo le difficoltà e le incongruenze che a volte il profano percepisce nascono proprio dal rapporto tra l'edificio e l'ambiente circostante, spesso di stridente contrasto: un esempio in Italia sono le case presso Villa Colonnese a Vicenza, che sembrano stritolare il verde e le viti che le circondano, mentre si sarebbero integrate perfettamente in un paese come il Giappone. In Giappone per case di questo genere avrebbero forse chiamato Tadao Ando, in Italia sarebbe stato meglio evitarle del tutto, in favore di scelte più sobrie e vicine alla nostra tradizione.

martedì 14 luglio 2009

Impulsi esterni

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/14/aquilino/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/14/aquilino/

La colonizzazione culturale che viviamo è una ferita autoinferta, aperta dallo svilimento della nostra memoria e dalla prona accettazione acritica di tutto quanto luccica e viene da fuori. Ovviamente questo "fuori" non è solo geografico, ma anche e soprattutto relativo alla memoria collettiva dei lettori e fruitori: gli innesti internazionali fanno bene alla letteratura, gli incroci interculturali generano idee spesso geniali e interessanti, ma ci sono anche autori e libri che propongono poco sotto le spoglie di un inconsistente esotismo di facciata, con la faccia del Nuovo sulla copertina che vende bene. Succede nell'editoria come nella televisione, nelle arti, in ogni espressione della cultura nel senso più ampio del termine.
Per il resto, senza soffocare e declassare il nostro patrimonio, ben vengano gli impulsi esterni: come civiltà stanca e senile ne abbiamo un gran bisogno, purché si tratti di risorse che ci permettano di confrontarci e crescere, non di finta cultura per vere sponsorizzazioni che puntano solo a sostituirsi prepotentemente alle realtà già esistenti.

venerdì 10 luglio 2009

Famiglia dello spirito

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/10/leituras-para-o-verao/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/10/letture-per-lestate/

E' bello avere consapevolezza delle tracce che i grandi scrittori hanno lasciato in noi, conoscerne l'identità, la natura e la portata, ma definire una "famiglia dello spirito" letteraria è più difficile di quanto sembri. La memoria individuale è un insieme di universi, come la letteratura stessa: il primo rischio è quello di citare un gruppo di autori limitato e parziale, magari dettato dalla situazione contingente, oppure un lungo elenco dispersivo.

Basterà individualmente riflettere sugli autori che hanno formato il nostro modo di leggere, scrivere, pensare e agire, restando ben consapevoli che la nostra riflessione non esaurirà il novero e l'ascendenza di ognuno di essi: dovrà quindi essere un gioco piacevolmente inutile, per chi avrà il coraggio di farlo.

Serve coraggio anche perché si rischia di dover fronteggiare la propria ignoranza: un altro freno a questo tipo di attività è la consapevolezza di aver letto - sempre e comunque - troppo poco per poter iniziare una riflessione di un qualche valore; interi scaffali di letteratura mancano ancora a un serio appello: è la condanna di chi - come me - legge lentamente.

giovedì 9 luglio 2009

Smettere di pettinarsi

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/09/a-risca-do-cabelo/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/09/la-riga-nei-capelli/

Se è vero, come credo, che la politica sembra sempre più una riga nei capelli, è probabilmente ora di smettere di pettinarsi e cominciare a cavarsi i pidocchi. Abbandonare la tradizionale divisione tra destra sinistra e centro è probabilmente uno dei primi passi necessari per risolvere tanti grandi problemi sociali, culturali ed economici che incancreniscono il nostro sempre più piccolo e calvo pianeta. Ne scrivevo giorni fa su queste pagine, ne parlavo anch'io con un amico: oggi non si tratta più di scegliere tra sinistra, centro e destra, e i capelli vanno dove vogliono comunque, senza logica apparente e senza obbedire al pettine. Il mondo reale perde di vista la politica, il mondo politico perde di vista la realtà. Non so cosa scriveranno di noi i posteri, ma il tempo passa in fretta, dal momento che i nostri nonni e bisnonni erano uomini dell'ottocento: il Rinascimento è ieri sera, la Grande Guerra oggi pomeriggio.

Oggi non ci sono più destra e sinistra, come non c'erano prima di venire teorizzati e inscatolati per noi consumatori: tolti i lustrini e le istruzioni, in fondo alla confezione abbiamo trovato solo una fallimentare lozione di pregiudizio. Restano vittime e carnefici, prede e predatori, parassiti e sangue a cui attingere. Forse i posteri scriveranno che il 2009 fu l'anno in cui il sistema sociale e politico europeo e americano, quelli che avevano la possibilità di farlo, vissero la crisi del dualismo destra-sinistra, ne capirono l'infondatezza e passarono oltre senza rimpianti.

martedì 7 luglio 2009

Conoscere, non idealizzare

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/07/do-sujeito-sobre-si-mesmo/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/07/del-soggetto-su-se-stesso/

Evitare di idealizzare le persone che ammiriamo non è solo indice di un sano pragmatismo, ma anche una vera e propria responsabilità. Succede nel mondo del cinema, dello sport, della musica e naturalmente anche in letteratura: certi lettori tendono a mitizzare gli scrittori che preferiscono spogliandoli di ogni connotazione umana e innalzandoli ad un livello che esige, più che ammirazione, una vera e propria devozione incondizionata.

Il fruitore dell'opera arriva in certi casi ad abbracciare devotamente e per intero la visione del mondo e le idee dell'autore, giustificandone anche le eventuali incoerenze e sacralizzandone le scelte, spesso attraverso la (più o meno consapevole) rimozione di ogni filtro critico.

Non si tratta di parlare soltanto - non qui - della debolezza o inconsistenza di alcune personalità che si lasciano trasportare da facili entusiasmi, ma di un'altra conseguenza (a volte ignorata) di questo fenomeno: il privarsi della possibilità di conoscere più profondamente e oggettivamente chi ammiriamo.

L'idealizzazione di un individuo (autore, cantante, politico, calciatore, artista che sia) comporta implicitamente la sua spersonalizzazione e trasformazione in un obbiettivo intrinsecamente irraggiungibile a cui tendere o con cui confrontarsi, ma questa immagine ideale è per sua stessa natura superiore persino alla realtà oggettiva della persona idealizzata: l'Alessandro Magno storico (come l'Ernesto Guevara, il Ronaldo, il John Lennon ecc.) non reggerebbe il confronto con la propria proiezione di sé nelle menti dei suoi devoti, spesso neppure con la propria versione cinematografica. Le due personalità si staccano, e l'idealizzato può facilmente perdere di vista la propria vera natura (umana, con il suo prezzo).

Anche la persona che sacralizza le virtù del proprio idolo ne perde di vista la natura umana (nel senso più ampio, nella sua interezza fatta di aree grigie, pregi e difetti) e ne svilisce il reale valore, separandone gli sforzi, i limiti, i successi e le capacità dal mondo in cui vive: ma è proprio in quanto opera di un essere umano calato nella realtà del mondo che un libro, un film, un'opera artistica, sportiva o intellettiva assume il valore che merita, ed è proprio in quanto buttato nella realtà che un uomo può trovare la possibilità di realizzare opere straordinarie. Invece, una volta diventato un angelo, l'uomo non potrà più fare nulla che ritenga degno di sé, e finirà per consumarsi e scricchiolare inesorabilmente.

Ammirando incondizionatamente finiamo per ammirare un feticcio inesistente, e soprattutto - dotandoci di paraocchi - perdiamo la possibilità di conoscere veramente in profondità e per intero (per quanto ciò sia possibile) chi ammiriamo; sarebbe più utile e proficuo inchiodare l'idolo al suolo, e permettergli di vivere da essere umano le proprie virtù e capacità realizzandole fino in fondo.

Con questo dualismo stridente mi viene in mente, forse senza motivo, il commovente Angelo Nero di Montale.

lunedì 6 luglio 2009

Internet (giochiamo un po')

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/06/critica/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/06/critica/

Chi avesse la pretesa di spiegare come un blog dovrebbe essere o non essere dimostrerebbe di non aver capito nulla della Rete.
Le persone che lasciano le proprie parole su internet comunicano con idee, strumenti e modalità del tutto personali, e nulla le obbliga a conformarsi a mezzi, stili e forme altrui. Nemmeno a confrontarsi, aggiungerei: ci sarà persino chi scrive solo per pensare mentre scrive, comunicazione come effetto secondario o danno collaterale.

Qui non siamo nell'imprenditoria o in una comunità dove esiste una memoria collettiva: siamo in un cosmo caotico (orpo, mi è scappato un ossimoro), in un (dis)ordine universale, dove ognuno atterra sul pianeta che preferisce, oppure ne fonda o colonizza uno a presciendere da qualsiasi regola.

Ad esempio nessuno mi vieta di infilare - anche in questo stesso post - un inutile collegamento a una pagina che parla della polizia nazista sotto le spoglie di un intercalare veneto, oppure un consapevole errore di battitura prima delle SS, tanto per restare in tema nazi, che anche in Italia è tanto à la page. La prossima volta potrebbe essere una riflssione seria, un commento banale, un'immagine, un video, uno sproloquio, un fumetto: Umberto Eco docet [dicunt].

venerdì 3 luglio 2009

Illusioni

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/03/aparencias/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/03/apparenze/

Alcune recenti riflessioni mi riconducono spesso circolarmente allo stesso concetto, il cervello interfaccia. Torno a parlare inevitabilmente dei nostri sensi limitati e ingannevoli, e del mondo-apparenza come prodotto del Reale che da parte del cervello viene passato al setaccio, stravolto e ridotto a pochi dettagli rispetto alla consapevolezza totale che sarebbe propria della nostra natura.
Una visione dell'universo meccanicistica o materialista non può che scontrarsi fragorosamente con questi concetti, con i quali rifiuta semplicemente di convivere: in fondo il fatto che siamo atomici (e quindi attraversabili) è solo una delle tante piccole illusioni che colmano il nostro orizzonte; tra queste ci sono anche la relatività delle dimensioni con cui interagiamo (non è così scontato non essere grandi interi anni luce, o piccoli come quark), o la visione lineare del tempo (che anche la fisica einsteiniana ha messo in discussione). In breve, non possiamo limitarci a sorprenderci delle apparenze triviali dei sensi, ignorando consapevolmente la sfida di superare le apparenze ben più complesse e determinanti della natura stessa della realtà e dell'uomo.
Eppure in numerose scuole della filosofia indiana l'idea delle apparenze è un concetto nodale, che viene affrontato come Maya (illusione) o come Avidyā (ignoranza): in entrambi i casi, l'illusione viene concepita innanzitutto come mancanza di consapevolezza della vera natura monistica della realtà, mentre l'illuminazione implica in primo luogo la consapevolezza dell'unità del tutto e la liberazione dalla prigione dei sensi che ci impongono di credere soltanto in ciò che vediamo, sentiamo, annusiamo. Il concetto viene poi accolto dal buddhismo indiano, poi da quello cinese e infine giapponese, arrivando persino in Germania tramite Schopenhauer, anche se in quest'ambito nessuno - mi pare - ha purtroppo mai parlato del cervello come interfaccia.

Scrivere

http://caderno.josesaramago.org/2009/07/02/traduzir/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/07/02/tradurre/

Scrivere è tradurre, anche quando stiamo utilizzando la stessa lingua: è proprio vero che si tratta di portare sulla carta tutti i possibili frammenti che riusciamo a raccogliere di un'idea. Il motore-idea (o spesso il motore-esperienza) che ci spinge a sondare un foglio o uno schermo bianco nasce in uno stato di grazia perfetta, quasi di (relativa) completezza, che poi si sfalda rapida e inafferrabile come un osso di seppia.
Se tradurre è trasportare (trans+ducere), scrivere ricorda l'azione di preservare e trattenere il più possibile del carro pieno d'acqua che stiamo tentando di portare dalla fonte alla mensa. Comunque sia, la differenza tra il carico iniziale e quello finale è spesso abissale: si parte con un patrimonio immenso, cristallino, ricchissimo, e a volte si arriva alla meta con poche goccioline.
Limitatezza implicita degli strumenti linguistici? O limitatezza dell'interfaccia che interpreta e traduce l'idea iniziale? Spostiamo, nutriamo e generiamo tutti delle idee straordinarie, incommensurabili, potentissime nei loro intenti e nella loro natura, ma arrivate ai sensi l'interfaccia ce le lascia solo intravedere, come in sogno. Quando infine arrivano sul foglio è come disegnarne l'ombra, proprio come scriveva Pindaro: ombra di un sogno è l'uomo. Figuriamoci quello che scrive.

lunedì 29 giugno 2009

Massacro

http://caderno.josesaramago.org/2009/06/29/espanha-negra/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/06/29/spagna-nera/

Si può soltanto sperare che sia temporanea la nostra epoca buia e luttuosa, un medioevo che preceda un nuovo Rinascimento della ragione, e che verrà un giorno in cui l'uomo guarderà alla propria storia con una lucidità e un orrore rinnovati, considerando inconcepibilmente ripugnanti tante proprie azioni e abitudini passate. Un'era nuova in cui la nostra razza riconoscerà che per le altre civiltà terrestri la coesistenza con gli uomini non può essere terreno di conquista ma un diritto naturale, e in cui troverà nella propria coscienza e nella propria storia la consapevolezza di dover responsabilmente liberarsi di zanne e artigli, solo fisicamente persi centinaia di migliaia di anni prima. Forse solo allora capiremo cosa significa e implica essere una civilta evoluta, aiuteremo le nostre civiltà sorelle - senza mai più considerarle nostre serve o nostra proprietà - a evolvere e prosperare, e un delitto sarà considerato tale anche se commesso verso di esse, si trattasse di delfini, api, bovini, uccelli o polpi. Per adesso, mentre la speranza è ancora nell'embrionale stato di sogno, viviamo ogni giorno un immenso massacro cieco e muto.

sabato 27 giugno 2009

Università e famiglia

http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/06/26/formazione-2/
http://caderno.josesaramago.org/2009/06/26/formacao-2/

Agli occhi del comune cittadino medio è forse inesplicabile, quasi incomprensibile, la relazione tra università e democrazia. E' opinione piuttosto diffusa che non c'entrino nulla: l'università servirebbe solo a studiare e a preparare al mondo del lavoro, mentre la democrazia sarebbe il miglior sistema sociale possibile per vivere insieme. Due cose completamente separate: la democrazia la fanno i politici, non le università; al massimo nelle università possono infilarsi alcuni poteri politici, mai il viceversa.

Immaginando un mondo ideale, non è difficile associare sapienza e governo: già Platone metteva i filosofi, i sapienti, a governare la sua Repubblica ideale. D'altro canto Platone sembra roba vecchia in un'epoca in cui le università producono soprattutto programmatori e ingegneri: con tutto il rispetto per queste due (potenzialmente meravigliose) professioni, una quantità impressionante di altre importantissime figure culturali, umane e professionali è stata sminuita fino alla minima considerazione, all'accusa di improduttività e al sospetto di inutilità. Se un uomo non produce ricchezza, tecnologia e benessere immediati viene tagliato fuori con la rapidità impressionante delle formiche e delle api che uccidono un intruso. A cosa non crediamo più? Ad esempio al fatto che un filosofo, uno storico, un logico, possono davvero contribuire a un dibattito sugli ogm, sulle cellule staminali, sulla situazione finanziaria internazionale, sulle crisi politiche del presente e le guerre del futuro.

Da centinaia di anni l'università non serve solo a studiare per imparare qualcosa da usare in futuro, a prendere un diploma: nell'interezza del confronto umano (humani nihil a me alienum puto, scriveva Terenzio), l'università ideale dovrebbe essere sempre presente come un meccanismo regolatore cibernetico (nel senso che il termine aveva prima di Watt).
Non come la lancetta dell'orologio, ma come il bilancere, l'università dovrebbe guardarsi dal proporre un'opinione, e concentrarsi a stimolare e ampliare come un prisma tutti gli interventi, senza trascurare nessuna delle voci, delle variabili e dei problemi in gioco: se non altro perché non sappiamo quale variabile apparentemente trascurabile di oggi potrebbe diventare fondamentale domani, e perché oggi abbiamo molteplici strumenti per poterlo fare.

Perché l'università si è contratta fino a perdere l'ambizione del proprio ruolo, o quantomeno l'immagine di questo ideale agli occhi del cittadino medio? Da organizzazione innovatrice è diventata sinonimo di conservatorismo? Il mondo si è trasformato intorno a lei, mentre si guardava le ciglia allo specchio? Oppure il mondo economico, politico, tecnologico, mediatico, sociale e geografico le è cresciuto intorno, mentre lei è rimasta piccola e indifesa prima di accorgersene? Le spiegazioni possibili sono tante, alcune più prosaiche di altre: ad esempio, ora più che mai le università vivono di fondi, denaro proveniente (o non proveniente) dallo stato e da grandi aziende private: di fatto, il potere di controllare, finanziare, esaltare, sminuire, affamare o deprecare alcuni progetti, materie, dipartimenti e atenei piuttosto che altri è concentrato in poche mani e poche firme, col rischio implicito di seguire - in buona o cattiva fede - il solo profitto immediato perdendo di vista il benessere sociale a lungo termine.

Ecco uno dei punti in cui le strade di università e democrazia si congiungono e intersecano: avviene molto più di quanto pensi il nostro cittadino medio, che se ne accorge soltanto quando vede sorgere accanto a casa propria una nuova centrale nucleare, compra cibo transgenico senza etichetta oppure trova il deserto mentale in prima serata su tutti i tasti del telecomando.

La famiglia vive una profonda crisi ed è impotente di fronte alle trasformazioni del nostro tempo? Personalmente su questo sono ottimista. Forse adesso nel mondo occidentale è davvero così, ma non sarà così per sempre, se gli spazi mentali e culturali intergenerazionali si assottigliano e dilatano ciclicamente nel tempo. Negli ultimi 10 anni, le generazioni più giovani sono nate già immerse nella comunicazione globale: alcuni dei loro padri non hanno mai neanche acceso un computer. Le idee, i valori, i sogni e gli incubi sono diversi, ma la siturazione è destinata a cambiare con una naturalezza che si profila auspicabilmente priva di scosse.
In Italia il discorso è persino diverso (chi se ne stupisce più?): da noi la crisi della famiglia assume caratteri differenti rispetto agli altri paesi, ma per quel che riguarda il futuro e le generazioni che verranno, il nostro mammismo non conosce crisi, mentre avremmo un disperato bisogno di bambini senza briglie.

giovedì 25 giugno 2009

Formazione

http://caderno.josesaramago.org/2009/06/25/formacao-1/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/06/25/formazione-1/

Due settimane fa parlando della formazione del bambino scrivevo che "il resto del lavoro formativo - contemporaneamente e parallelamente ai genitori - spetterà naturalmente alla società e soprattutto alla scuola, che nel migliore dei casi sarà una fucina di esperienze e possibilità, creatività e disciplina". Va da se' che nel migliore dei casi significa che non la situazione non è sempre aderente all'ideale. La formazione scolastica e universitaria scolpisce l'individuo dall'infanzia fino all'età adulta per prepararlo culturalmente ed eticamente al vivere sociale, civile, professionale: può creare prodigi e mostri, nutrire la ragione o soffocarla. Il destino del mondo è in mano agli insegnanti? In parte sicuramente sì, ed è perciò ancor più preoccupante la famosa frase di Confucio "chi fallisce come politico va a fare l'insegnante".

Se il fondamentale ruolo della didattica è riconosciuto universalmente, sulla scuola italiana si sentono pareri diametralmente opposti: ce la invidia il mondo intero - è un disastro pachidermico - è un sistema flessibile e umano fatto di professionisti responsabili - è una conigliera di fannulloni incompetenti. Penso che ognuno di noi possa testimoniare che nessuna di queste affermazioni è vera in assoluto: al di là del sistema in se', nei 15-20 anni che passa sui banchi lo studente medio incontra quasi invariabilmente insegnanti di valore professionale e umano molto differente. Dopo un anno, alcuni non li ricorda neppure, altri lo segnano per la vita in positivo, di altri ricorda forse soltanto l'incompetenza, di altri ancora ha una memoria vaga e stemperata dal tempo, sotto la quale si cela un solco profondo nella forma mentale, indelebile e a volte insospettato.

In Asia, soprattutto in Giappone, l'obbiettivo primario della scuola non è formare la persona culturalmente, ma "costruire un giapponese": dotarlo della forma mentale, della disciplina, della Weltanschauung che contraddistingue il Sol Levante e lo Shinto. La materia oggetto di studio ha un'importanza molto relativa: lo scopo primario è che l'individuo impari a convivere col proprio popolo e a condividerne i valori, realizzandosi fino a diventarne una cellula integrante e obbediente. Ne è prova il fatto che laureati in medicina finiscono spesso a lavorare alla Toyota, laureati in letteratura vengono assunti come grafici, programmatori diplomati finiscono a fare i giornalisti. All'azienda che cerca personale fresco non importa cosa abbia studiato il candidato: la formazione professionale avverrà all'interno della ditta, purché l'ex-studente provenga "da una buona università". In Giappone una buona università è quella che trasforma un bambino vivace, capriccioso e curioso in un giovane impassibile, ubbidiente e civile: una tabula rasa pronta ad assorbire la formazione interna senza porsi troppe domande.

Funziona? Naturalmente funziona benissimo e malissimo, come tutti i sistemi sociali dell'umanità: nelle organizzatissime aziende giapponesi c'è comunque fame di creatività e individualità. La fantasia e l'individualità agonizzano per definizione, e i famosi architetti e designer giapponesi sono quegli individui che - dotati di molto talento e insopprimibile individualità - sono sopravvissuti alla strizzata neurale della formazione scolastica.

A Taiwan invece la scuola presenta problemi molto seri, ma tra le sue scelte più interessanti e lodevoli c'è senza dubbio l'importanza attribuita alle attività di gruppo - sportive o di autogestione, come la pulizia degli spazi comuni da parte degli stessi studenti e le tante ore che i giovani trascorrono insieme: al di là della lezione frontale, e accanto ma non a discapito delle materie di studio, il discente impara a convivere con i compagni, a gestire i propri diritti e doveri rispetto agli altri, a condividere strutture, spazi, risorse e problemi, partecipando davvero a quella formazione che è scuola e scuola di vita.

Cosa possiamo fare nel nostro Paese per migliorare un sistema che ha comunque già dei pregi? Siamo nella prima era globale: tra le altre cose, possiamo senz'altro cominciare a guardare fuori dal giardino e iniziare un dialogo costruttivo con i nostri lontanissimi vicini di casa, non solo giapponesi e taiwanesi naturalmente.

martedì 23 giugno 2009

Terrorismo

http://caderno.josesaramago.org/2009/06/23/sastre/
http://quadernodisaramago.wordpress.com/2009/06/23/sastre/

E' impossibile giustificare il terrorismo, in qualsiasi forma si manifesti, ma spesso la nostra società occidentale boreale si interroga poco sulle cause che lo scatenano, limitandosi a bollare i terroristi come un gruppo indiscriminato di "pazzi assassini". Non si tratta di comprendere nel senso di accogliere o tollerare, ma di cercare di capire i motivi per cui qualcuno dovrebbe decidere di contribuire a un attentato, magari con esito suicida: cosa spinge una persona a sacrificare la propria vita per distruggerne altre?

Qualcuno parla - in quest'epoca tanto insanguinata dal terrorismo islamico - di motivi religiosi, di guerra santa, della prospettiva di guadagnarsi il paradiso, ma al di là delle pedine dell'esecuzione materiale - conscie o plagiate che siano - ci sono scenari molto più vasti, complessi e spaventosi: economie piegate, governi totalitari, presidenti fantoccio, elezioni truccate, diritti umani calpestati dall'interno e dall'esterno del paese.

Nel frattempo noi civilissimi italiani siamo andati a portare la democrazia e la pace in Afghanistan: invece di scienza, arte e progresso, come facevano i gesuiti per conquistarsi la stima degli imperatori Qing, abbiamo portato elicotteri da guerra Locusta. Abbiamo ucciso, tra gli altri, anche una bambina innocente sotto gli occhi di suo zio; poi però vogliamo il dialogo con le popolazioni locali, cerchiamo di "mantenere gli equilibri". Non c'è da stupirsi che ci sparino addosso, e che il "processo di pace" sia difficile: sarebbe interessante vedere come reagiremmo noi, di fronte a militari stranieri che girassero armati sulla nostra terra e ammazzassero una nostra figlia o nipote.

Nel frattempo altri terroristi operano indisturbati e con risultati migliori dei nostri: dalle compagnie petrolifere sul delta del Niger, agli squadroni della morte col bollino Chiquita (United Fruit Company), dagli sterminatori di boscimani del Botswana (diamanti Graff), alle compagnie farmaceutiche che fanno un sacco di soldi attraverso gli untori mediatici delle tanto paventate influenze aviarie e suine (sappiamo tutti come finisce la favola del bambino che grida "al lupo, al lupo"...)

Meglio fermarsi: l'elenco sarebbe lungo, e sono comunque cose che si trovano facilissimamente su internet. Per qualche ragione, non riusciamo ancora a chiamarle col loro nome.